PRISCO, (Su) MICHELE – un’intervista di Carmelo Aliberti

Sebastiano Marino, Natura Morta con paesaggio sull’Etna, Collezione “La Casa del Sogno Antico”, Militello in Val di Catania (Sicilia)

Alibertierti, Carmelo – Intervista su Michele Prisco

Scritto il SALVOGARUFI

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Michele Prisco: intervista a Carmelo Aliberti

pubblicato il 4 giugno 2007 alle 15:52

scritto da Simone Gambacorta

tematiche affrontate: intervistenarrativa

Simone Gambacorta ha intervistato Carmelo Aliberti su Michele Prisco.

La scomparsa di Michele Prisco chiude il sipario sulla vita di un importante scrittore. Anche Prisco, al pari di altri autori italiani contemporanei, ancora non riesce ad ottenere i riconoscimenti che pure, come vorrebbe l’evidenza, gli spettano. Restano indimenticabili le analisi psicologiche di certi suoi romanzi o racconti, come quelli de “La provincia addormentata” (1978). E che dire di “Fuochi a mare” (1957), “Punto Franco” (1965), “Il colore del cristallo” (1977), “Gli eredi del vento” (1950), “La dama di Piazza” (1961) e del Premio Strega “Una spirale di nebbia” (1966)? Ma questo elenco vale giusto come rapida citazione, perché altri titoli andrebbero ricordati. Ci è parso allora opportuno fornire un ricordo di Michele Prisco che valesse a ripercorrerne la figura e l’opera, in modo da introdurre, nella pur vasta bibliografia sullo scrittore, un contributo affrancato da quel tono di circostanza che ha avvolto buona parte degli articoli piovuti dopo la sua dipartita. Abbiamo così pensato di intervistare Carmelo Aliberti, che è stato legato a Prisco da profonda amicizia e che è uno dei più appassionati lettori dell’opera del romanziere partenopeo, come testimoniano numerosi scritti, fra cui spicca “La narrativa di Michele Prisco” (1996).

Prof. Aliberti, chi se n’è andato con Michele Prisco?

Con Prisco scompare uno dei pochi grandi scrittori del Secondo Novecento, che scelse la letteratura come impegno morale e come destino. Fu un grande maestro di onestà, umanità, libertà, dignità, eticità, cultura.

Quali sono stati i suoi rapporti con lo scrittore?

Circa trentacinque anni di ricordi, corrispondenza, di eventi, di collaborazione, di stima, di amicizia, di telefonate, di incontri hanno scandito i miei rapporti con Prisco. Mi limito a poche citazioni. Dopo la lettura di “Una spirale di nebbia”, mi accingevo a pubblicare il mio primo volumetto di versi che, per la consonanza di alcuni motivi “topici”, quali l’amore, il mistero, la morte, decisi di intitolare “Una spirale d’amore”. Inviai la plaquette pubblicata a Prisco che, senza che io lo sperassi, mi rispose con una lettere affettuosa e incoraggiante e, con quella nobile eleganza di toni che lo contraddistingueva, mi stimolò a continuare. Da allora si sviluppò tra noi una intensa corrispondenza, alimentata da comuni affinità tematico-stlistiche, tanto che egli, che si dichiarava inesperto di poesia, volle recensire il mio volume di versi Il giusto senso, sulla rivista napoletana “Nostro tempo”. Dopo l’uscita de “Le parole del silenzio”, Prisco si decise ad accogliere i miei reiterati inviti a venire in Sicilia. Lo presentai in due sedi qualificate e lui si dimostrò lieto di aver conosciuto, in maniera più profonda, il vero volto di una Sicilia umana. Successivamente lo andai a trovare nella sua abitazione napoletana. Mi intrattenne con affettuosa cordialità, manifestando il suo rammarico per la violenza che, allora, insanguinava anche le vie di Napoli. Ebbi modo così di osservare quanto il tema della violenza che egli aveva sviluppato in “I cieli della sera” lo inquietasse costantemente. Poiché il “motivo” turbava continuamente anche la mia sensibilità, decisi allora di dedicarmi a studi più impegnativi sulla sua narrativa. Nacquero così tante recensioni e due volumi dedicati a Prisco.

Capisco, e mi rendo conto che il vostro fu un rapporto particolarmente stretto, di intimità, di confronti. E allora le chiedo qual è il “suo” Prisco? Quali sono, cioè, le pagine dello scrittore che più intimamente la hanno colpita?

Tutte le tematiche di Prisco e il lirismo psicologico con cui sono ispezionati i labirinti psicologici del cuore umano mi hanno particolarmente affascinato e hanno influenzato anche la mia poetica. Ma sono rimaste incancellabili in me le pagine de “I cieli della sera”, il romanzo più caro allo stesso Prisco: il dramma psicologico di Davide che, traumatizzato da una tragedia familiare, si rifugia in città, dove rischia di essere trafitto dalla violenza del mondo. Dalla rappresentazione oggettiva, lo scrittore procede alla individuazione delle ragioni che ne hanno determinato la genesi, con gli strumenti dell’indagine psicologica, per arrivare poi ai tabulati della ragione, alle ipotesi di superamento. Il romanzo vuole essere una presa di coscienza, l’insostituibile approdo ad un bisogno di moralità. Davide torna alla casa natale, dopo l’oscura tragedia che vi si è consumata, spinto da un’insistenza di chiarezza e di verità, verificando nei luoghi del disastro la partenogenesi di quella irrazionale eredità che si è impossessata della sua anima, al fine di poter responsabilmente resistere al turbine della violenza, all’intolleranza e alla brutalità che sembra aver oscurato la speranza del mondo.

Questa sua risposta, così succosa, così ghiotta, mi suggerisce subito un’altra domanda. Cos’era il romanzo per Prisco? E cosa ne caratterizzava la poetica, le strutture, lo stile?

Prisco può essere considerato come uno scrittore che, in modo appartato, ha percorso un itinerario narrativo solitario, ponendosi in ascolto del dubbio della ragione, dell’ostinata conflittualità dei sentimenti e affrontando, in maniera talvolta tragica, il perenne conflitto tra bene e male. La ricerca delle ragioni da cui scaturisce il male diventò per lui ossessione etico-razionale, soprattutto negli ultimi romanzi, con perforante e doloroso avanzamento verso mete di chiarimento interiore e di verità. Per la molteplicità delle ricognizioni all’interno delle spiralizzazioni della psiche, tese a esplorare e capire le motivazioni inconsce dei turbamenti di anime malate, da cui sono scaturiti gli umani destini, Prisco si è conquistato un capitolo proprio nella storia della letteratura contemporanea. Nelle sue pagine acquistano rilevanza artistica problematiche storiche, etiche, psicologiche, psichiche, sviluppate in maniera consona al contesto interno-esterno, che hanno ridotto il conflitto tra marxismo e cattolicesimo, come tra cattolicesimo e liberalismo, agevolando il misterioso viaggio verso la pace interiore che ogni personaggio conquista, attraverso una sapiente ricerca etico-intellettuale, di sapore neo-illuministico e post-industriale, in cui è possibile ritrovare la dolcezza e il giusto senso della vita, in una cornice di struggente poesia. Il romanzo di Prisco può essere identificato come la metafora della coscienza contemporanea, lacerata nella sua identità culturale, impregnata di pudicizia e castità, ma trascinata da inesplicabili passioni verso aree di allucinanti follie, dove il conflitto tra innocenza e tragicità si risolve in trasparenti, ma fragili, conquiste di verità.

C’era un proposito preciso, quindi, nella sua scrittura.

Prisco si propone di arginare lo sbaraglio morale del mondo. Da questa necessità interiore nasce il suo non etichettabile romanzo, in cui i personaggi non sono prefissati in uno scontato schema narrativo, ma si vanno costruendo i percorsi della loro storia, nell’onda coscienziale dell’autore. Il suo romanzo risulta, così, sottratto alla orizzontalità evolutiva degli eventi e si proietta verso uno scioglimento delle trame, in un’atmosfera psicologica sospensiva o in una soluzione sofferta di nebulosi dilemmi.

E da un punto di vista tecnico, come funzionano le pagine di Prisco?

La tecnica elaborativa si fonda su “strutture narrative che vanno dalla scomposizione della cronologia al racconto in presa diretta, alla scelta di un osservatorio affidato alla voce di un personaggio narrante, alla moltiplicazione dei piani, all’incontro tra le varie storie, non senza il calcolato margine di polivalenza che deriva al soggetto da una simile sofisticazione”.

In questa prospettiva quale ruolo hanno i personaggi?

I personaggi, scrollati dalla condizione esistenziale del presente, si inabissano nell’alveo della memoria per sottoporsi a un auto-esame critico del processo degenerativo del proprio percorso interiore. La predilezione della provincia vesuviana, dove si srotolano quasi tutti gli intrecci fabulatori, sgorga dall’urgenza di immergersi nell’universo delle radici, ove illuminare i nodi generatori della colpa, della disperazione e della dissoluzione dell’essere, per recuperare il mosaico della autenticità perduta e della verità a lungo imbavagliata dall’errore e dal dolore. Emergono allora i movimenti “biologici” dell’inconscio, tradotti, alla fine, in una rassegnata accettazione delle ipotesi della predestinazione della libera scelta del male, di fronte a cui lo scrittore non assume toni di giansenistica condanna, ma rivela una evangelica e dolente vocazione alla tolleranza.

Lo stile di Prisco.

Lo stile è caratterizzato da complesse articolazioni, dove una rigorosa armonia di scelte lessicali riesce a trasfigurare in inconfondibili intonazioni liriche i paradigmi emotivi dell’io, fissati in un pentagramma sintagmatico e stilematico che risuona di intense vocazioni poetiche.

Adesso voglio citare un passo di Prisco, tratto da un suo ben noto articolo: “si crede, scrivendo, di compiacere un proprio istinto, ma dal momento che si pubblicano le proprie cose, bisogna ci si conformi alla necessità di essere uno scrittore, uno, insomma, a cui la gente, il pubblico, diciamo pure un altro uomo, si sente in diritto di porre domande precise, concrete, indifferibili, creando così il rapporto scrittore-società e, più esattamente, scrittore-pubblico” (“Uno scrittore si confessa”, In “Oggi e Domani”, n. 5, maggio 1982). Quali considerazioni le suscita questo stralcio?

Nell’ultima fase della sua vita, Prisco, che era stato sempre scrittore schivo e appartato, si convinse che, in una società che si accingeva a dissacrare irrimediabilmente la funzione della letteratura, era necessario che lo scrittore accompagnasse personalmente la sua opera tra il pubblico, per diventare testimone vivente di un’operazione culturale che anche i lettori avrebbero potuto realizzare nella propria realtà interiore, per poter produrre dentro di sé la catarsi, la liberazione, cioè, dei propri malesseri, attraverso l’avventura del viaggio nella letteratura. Da ciò scaturiva la necessità di essere uno scrittore con cui il pubblico avrebbe potuto misurare la propria ambiguità coscienziale e i propri laceranti dilemmi, e trovare, nel contempo, risposte concrete per ricomporre gli equilibri interiori “in crisi”. Con tali suggerimenti, lo scrittore ancora può riappropriarsi dell’ancestrale funzione di guida non accademica della società e recuperare alla letteratura il ruolo di ancora di salvataggio da ogni naufragio dell’essere, pur con le ostinate utopie.

In quell’articolo Prisco parla del suo modo di essere scrittore, con tutte le implicazioni che lei ha sottolineato. Ma sappiamo bene che, piaccia o no, uno scrittore deve fare i conti con i critici. Quali sono stati i rapporti di Prisco con la critica?

La bibliografia critica su Prisco è ricchissima. Fin dagli esordi, i critici più qualificati si occuparono costantemente e con giudizi sempre positivi delle opere dello scrittore napoletano. Fiore, Pullini, Nascimbeni, Bo, Garboli, Marabini, Pampaloni individuarono nelle complesse trame narrative prischiane la validità di strumenti linguistici e culturali idonei ad estrapolare le connotazioni di una poetica tra natura e sentimento, memoria e storia, irrazionalità ed eticità, laicismo peccaminoso e religiosità. Opere monografiche, traduzioni in altri venti paesi e premi letterari importanti testimoniano la vasta diffusione ed elevata qualità culturale che caratterizzava l’operazione narrativa di Prisco. Tuttavia, nella storia letteraria ufficiale, la sua tipologia romanzesca rimase inchiodata all’etichettatura di romanzo di stampo ottocentesco. Ciò provocò nello scrittore del rammarico, in quanto certa critica non riusciva a percepire come la sua opera si innestasse nel solco del moderno romanzo psicologico con connotazioni psicoanalitiche; e come su una linea ideale Manzoni-Dostojevskij-Svevo-Pirandllo-Joyce-Proust, interpretasse, in realtà, la tragedia contemporanea dell’umanità, straziata dalla devastazione degli eterni valori del cuore. Una linea narrativa attualissima, speculare dei rivolgimenti spirituali e culturali di questi anni.

Con Mario Pomilio e Domenico Rea, Prisco fu tra i fondatori della rivista “Le ragioni narrative”. Quale ruolo e quale peso ha avuto questa rivista?

La rivista si propose di reagire al nouveau roman de l’ecole du regard, proclamato da Robbe-Grillet e altri. La rivista nacque per difendere certi valori, le “ragioni narrative” dei fondatori, in un momento in cui nella vita letteraria italiana si affacciava il terrorismo ideologico – non in senso politico – delle avanguardie. Se il romanzo italiano, dopo un momento di sbandamento – come lo stesso Prisco affermò – ha registrato una ripresa di fiducia, forse è stato anche grazie a taluni saggi che apparvero sulle pagine della rivista napoletana, in difesa di una letteratura che ponesse l’uomo al centro dei suoi interessi.

Intervista di Simone Gambacorta

Pubblicato su “Sìlarus”, a. XLV (2005), n. 238, pp. 29-34.

PUBBLICATO INIL GARUFI EDIZIONI

Tags:Letteratura del Novecento , Michele Prisco

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Nato a Militello in Val di Catania il 19/11/1951. Attualmente in pensione, ha insegnato nelle scuole statali stenografia, materie letterarie, storia dell’arte, storia e filosofia. E’ autore di narrativa, teatro e saggistica. Ha collaborato con la Terza Pagina del “Secolo d’Italia”. E’ stato assessore alla cultura a Militello (CT) e consulente per la cultura nella Provincia di Catania. Mostra altri articoli